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Immagine del redattoreFilippo Carli

Aggiornamento: 5 apr 2022

Che cosa è non commettere peccato?

Non lo ho mai saputo

Fino a quando un giorno

i miei occhi hanno realmente visto un fiore crescere.


Angelo Silesio


Che cosa significa essere realmente vivi? Significa essere vivi spiritualmente.

Angelo Silesio in questi versi scrive che peccare corrisponde a non accorgersi della vita di un fiore, la vita di un essere piccolissimo che cresce in silenzio all’ombra della coscienza.

Ma che cosa rappresenta dunque quel piccolo fiore? Il fiore rappresenta l’essenza della vita stessa nella sua manifestazione piu semplice. Commettere peccato significa dunque non accorgersi della vita. L’essere umano per la maggior parte del suo tempo vive distrattamente. Egli è distratto sempre o quasi sempre, lo è mentre cammina, mentre lavora mentre parla, mentre riposa mentre ascolta un brano musicale. L’essere umano è distratto dall’attività mentale che lo accompagna ad ogni singolo passo, da un brusio interno di cui non è il più delle volte consapevole. Questo brusio di fondo rende la mente reattiva ad ogni stimolo esterno ed ecco che di fronte ad un fiore crea un immagine, un immagine di quel fiore appropriandosene. L'essenza della vita si potrebbe dire essere puro presente, è adesso. E dunque la vita è proprio quel piccolo fiore che improvvisamente silesio vede rendendosi conto di non aver mai visto un fiore prima dallora, non perche non lo avesse mai incontrato, ma perche non aveva mai avuto lo spazio dentro di se, il silenzio, per poterne accogliere in modo completo la presenza.


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Immagine del redattoreFilippo Carli

Rientrando in albergo nella città di Chennay in India, nell’ombra della sera, ho incontrato lo sguardo luminoso di un uomo. L’uomo era seduto sul pavimento e raccoglieva centinaia di piccoli fiori che cadevano da un grande albero di ficus. Lo avevo già visto raccogliere quei piccoli fiori la sera prima sotto la pioggia, e il giorno dopo era ancora lì seduto a terra, sempre a compiere lo stesso semplice gesto, e così tutti i giorni di quella settimana, l’uomo avrebbe fatto la stessa cosa, raccogliere uno ad uno i fiorellini del grande ficus. Ma perchè lo faceva? A cosa servivano quei fiorellini? Mi decisi a chiederglielo, e quando rispose, subito capii. “Tirupati Bhagwan” disse l’uomo. Egli avrebbe portato quelle migliaia di fiorellini in dono a Bhagwan - il divino - nella città di Tirupati nel sud dell’india. Scattai una fotografia all’uomo e quella sera guardandola capii che cosa rende luminosa la vita di un essere umano.

Non è il benessere ne la ricchezza, non sono le certezze di una vita comoda a rendere luminosa la vita di un uomo. Che cos’è allora? E’ il contatto con il senso profondo della vita che rende luminosa l’esistenza di un essere umano. Non è un idea, non è un concetto, ma un sentire, è il sentire più intenso che si possa sperimentare a rendere luminosa la nostra vita, e questo sentire è l’amore. Quell’uomo preparava il suo dono con infinito amore e riconoscenza verso ciò che egli amava: il divino.

Chi non è mai stato innamorato? e chi, non ricorda la gioia che c’è nel preparare un regalo da portare a chi si ama. Chiunque può donare, chiunque può fare un dono, non c’è bisogno di possedere qualcosa per donare, perchè ciò che si dona è sempre e soltanto la stessa cosa: la propria presenza. L’oggetto non ha valore in se, esso rappresenta soltanto chi dona. Quando doniamo è come se dicessimo: ecco prendi, questo sono io per te. Quell’uomo seduto sull’asfalto aveva creato il suo dono raccogliendo uno per uno, istante dopo istante, i fiori che l’albero di ficus lasciava cadere sul suolo. Nel raccogliere quei fiori l’uomo aveva messo tutto se stesso, tutta la sua presenza, ogni giorno, con il sole o sotto la pioggia egli aveva trascorso il tempo della sua esistenza collezionando i fiori da portare al suo amore. Ogni singolo fiore era un momento della sua vita vissuto con amore e per questo in contatto con il senso profondo della vita.

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Immagine del redattoreFilippo Carli

Aggiornamento: 11 feb 2020

Una delle prime storie che da ragazzo penetrò profondamente la mia fantasia raccontava di un villaggio i cui abitanti  cominciarono d’improvviso a dimenticare i nomi delle cose. Immaginando un mondo di cose senza nomi,  provavo un profondo senso di liberazione, come se lo spazio intorno a me si distendesse. Da giovane infatti, non riuscivo a ricordare il nome di qualcosa senza prima averla  vista e toccata con le mani. La geografia ne è un esempio perfetto: soltanto nel tempo, viaggiando, ho imparato dove sono e dove confinano le regioni del mio paese. Tutto questo ovviamente fu causa di gravi insufficienze negli studi, ma per me era inderogabile, le cose venivano prima del concetto astratto che le indicava. Ovviamente non ho niente contro le parole, sono meravigliose creature, come lo sono i canti degli uccelli. Ma ciò nonostante spesso le dimentico, e quando succede provo ancora oggi un senso di beatitudine. E se un giorno non ricordassi davvero più la parola stella? cosa penserei guardando in alto il cielo di notte, e come  indicherei le stelle ad un amico? Userei altre parole, nidi di fuoco, occhi brillanti del cielo, insomma farei poesia. E cosa accadrebbe se non ricordassi più nemmeno una parola? Allora vivrei nel puro incanto. La capacità della nostra mente si è evoluta creando astrazioni, concetti e parole per indicarli. Questa è stata una grande acquisizione per la nostra coscienza, ma l’atto astrattivo coincide con una separazione, e di conseguenza necessita di un’attenta cura alla riparazione, alla ricongiunzione, ed è questo il compito che spetta al mito, all’arte, alla poesia e al rito.

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